La Generazione Z rappresenta circa il 30% della popolazione mondiale totale ed entro il 2025 si stima rappresenterà circa il 27% della forza lavoro.
Eppure, complice la pandemia globale, la fascia più colpita dalla piaga della disoccupazione, al momento, è proprio la categoria dei giovani.
I dati più recenti del 2020, infatti, mostrano che la Gen Z ha un tasso di disoccupazione di quasi il doppio rispetto alle altre fasce generazionali più anziane, in quasi tutti i paesi OCSE.
In Italia la situazione è particolarmente critica se pensiamo che solo il 58% della popolazione in età lavorativa (15 – 64 anni) ha un lavoro retribuito, e che tale percentuale è già di per sé inferiore alla media OCSE.
Dal punto di vista della disoccupazione giovanile però, siamo secondi soltanto alla Spagna (38,8%) con il 29,4% di disoccupati nella fascia 15-24 anni.

Gli effetti della recessione
Il problema sembra stare nel fatto che la gran parte della Gen Z sta entrando nel mondo del lavoro nel mezzo di una crisi finanziaria dovuta alla pandemia globale.
Secondo la Bank of America Research, così come la Grande Recessione del 2008 ha avuto impatto sul futuro dei Millenials, il Covid ha colpito maggiormente, anche in questo caso, la generazione più giovane e meno esperta, ostacolandone la carriera e il potenziale di guadagno.
Non è strano dunque che le persone di età compresa tra i 20 e i 24 anni abbiano raggiunto un tasso di disoccupazione di quasi il 27% nell’aprile 2020. Il dato più alto di qualsiasi altra generazione.
Secondo gli economisti, oltre alle conseguenze immediate, la recessione potrebbe portare anche a conseguenze a lungo termine.
Ritardare l’ingresso nel mondo del lavoro significa perdere anni cruciali di formazione ed esperienza.
Inoltre, già prima dell’inizio della pandemia, la situazione occupazionale per i giovani non era rosea. Il trend, ormai, prevedeva di accettare stipendi sempre più bassi rispetto al passato, con contratti precari e a tempo determinato.
Il risultato è una ripercussione negativa sull’intera carriera, con meno possibilità di crescita professionale.
Carriera a rilento e guadagni inferiori
Iniziare più lentamente incide anche sui guadagni.
Uno studio ha rilevato che lunghi periodi di disoccupazione giovanile possano ridurre il reddito a vita del 2%.
A causa dell’attuale situazione economica, i membri della Generazione Z sono portati ad accettare lavori meno retribuiti portandoli su un percorso di guadagni relativamente inferiori nel corso della loro vita.
Inoltre, fra gli occupati, una buona parte svolge lavori distanti dalle competenze ottenute con il titolo di laurea, vedendosi costretti ad accantonare (perlomeno momentaneamente) le ambizioni professionali nel campo di studi.
Coloro che invece riescono ad intraprendere una carriera in linea con gli studi, ricevono comunque stipendi più bassi rispetto ai giovani del passato.
Questo è dovuto sia alla crisi, sia all’inflazione del valore delle competenze nel mercato del lavoro dato dal numero sempre maggiore di laureati. In poche parole, economicamente parlando, oggi la laurea vale meno rispetto a 20 anni fa.
Il reddito medio, comunque, è calato anche per chi inizia con professioni meno qualificate.
Disoccupazione giovanile in Italia
Prima di quello odierno, il peggior livello di disoccupazione giovanile in Italia era stato raggiunto nel 2014 con il 42%. Da quell’anno fino al 2019 la situazione era migliorata, e nel 2020 abbiamo assistito più che altro ad una frenata, con solo un leggero peggioramento da 29,2% a 29,4%. Tuttavia, questo aumento così leggero dipende anche dal blocco dei licenziamenti.
Considerando le percentuali così alte, non è difficile immaginare gli effetti negativi di questa disoccupazione sia sugli stessi giovani, sia sull’intero Paese. Per una persona sotto i 29 anni, infatti, non lavorare né studiare significa arrivare a 30 anni con competenze lavorative scarse, peggiorando di conseguenza la qualità dell’offerta lavorativa di un Paese.
Tuttavia, considerando la situazione italiana, un fattore che non va trascurato è il fenomeno del lavoro in nero. Non possiamo ignorare, infatti, quanto il lavoro sommerso possa alterare i dati relativi a disoccupazione e disoccupazione giovanile.
In ogni caso, il numero di giovani ufficialmente disoccupati rimane allarmante. Sia per il divario fra occupati giovani (20-29 anni) e anziani (55-64 anni), sia per numero di Neet, ossia i giovani che, oltre a non essere occupati, non sono inseriti in un percorso di istruzione né di formazione e che sono il 22.2% dei 15-29enni (contro una media Ue del 12.5%).
Fannulloni o problema sistemico?
È chiaro che le cause di percentuali così negative debbano risiedere in problemi ben più profondi, non riconducibili alla retorica di “giovani fannulloni”.
Gli esperti parlano di una mancata corrispondenza fra le nozioni acquisite durante la formazione e quelle richieste dalle aziende. Nei casi peggiori questo disallineamento non permette l’accesso al lavoro perché mancano le competenze richieste. In quelli migliori si ottiene una posizione per cui si è sovra o sotto-qualificati.
In questi ultimi anni abbiamo assistito a tentativi di allineamento fra scuola e imprese, ma la strada è ancora in salita.
Pensando ad esempio all’alternanza scuola-lavoro, spesso in Italia il sistema è visto come occasione per avvalersi di manodopera a basso costo, cosa che non avviene invece nel resto d’Europa, in cui si riconoscono i vantaggi legati alla formazione di un lavoratore tecnicamente competente da inserire nell’impresa.
In Italia c’è poi l’incapacità delle aziende di riconoscere il valore delle soft skills. È compito di chi assume riconoscere il valore della flessibilità, delle capacità di problem solving, e – banalmente – anche del valore di una formazione umanistica.
In conclusione, è evidente che le cause della disoccupazione giovanile siano da imputarsi a un sistema strutturalmente gerontocratico più che alla pigrizia delle nuove generazioni.