Razzismo e coronavirus: due pandemie parallele

Martina Pastori

124mila morti per Coronavirus, la disoccupazione alle stelle e la morte di George Floyd hanno incendiato l’America – e non solo – di rivolte senza precedenti. Gli analisti hanno definito quest’incrociarsi di circostanze come la tempesta perfetta.

Vediamo, con questo articolo, di contestualizzare meglio il razzismo e i fenomeni paralleli che hanno portato all’innescarsi dell’ondata di proteste.

Premesse già instabili

Nel 2019, uno studio del Pew Research Center aveva messo in evidenza come, a distanza di centocinquant’anni dal Tredicesimo emendamento, il ricordo della schiavitù continuasse ad avere, negli USA, un non trascurabile impatto sulla vita della comunità afroamericana. Il 56% degli Americani, anche prima dei surreali sviluppi odierni, pensava che l’elezione di Trump non avesse che peggiorato la situazione; per quanto, com’è intuibile, l’opinione di Democratici e Repubblicani sulle questioni di razza differisca notevolmente.

È su un equilibrio già incrinato, quindi, e non sufficientemente progredito nella direzione dell’uguaglianza, che si è innestata, nelle ultime settimane, una complessa concatenazione di circostanze. Con i risultati che tutti noi conosciamo: omicidi, atti vandalici, episodi di violenza e di razzismo contro i manifestanti, coprifuoco, abuso di armi e lacrimogeni.

Lo studio dell’Università di Londra

La storia insegna che le pandemie mettono spesso a nudo le disuguaglianze. Qualcosa di simile è successo, in America, con l’epidemia di colera del 1849, e quella che stiamo vivendo non fa differenza. È su questo presupposto che si basa lo studio dell’Università di Londra condotto dal medical historian Mark Honigsbaum.

Il fine ultimo? Illustrare in che senso la pandemia corrente non possa essere definita un semplice fenomeno biologico, ma anche, per il portato di conseguenze che comporta, un vero e proprio fenomeno sociale.
In quest’ottica, le preesistenti disparità razziali si sono sommate a una serie di altri fattori, ciascuno con un suo peso specifico. Innanzitutto la – discussa – gestione, da parte di Trump, della sanità e dell’emergenza; poi il fatto che, negli USA, quasi il 60% delle vittime di Coronavirus sia afroamericano; infine il tasso di disoccupazione volato al 14,7%, mai così alto dal Dopoguerra.

Quando, il 25 maggio, il video di Derek Chauvin nell’atto di soffocare George Floyd ha fatto il giro degli smartphone di tutto il pianeta, le ultime parole di Floyd sono sembrate provvidenziali agli Americani e al mondo: I can’t breathe.
Sotto gli occhi di un mondo piegato da una malattia che attacca soprattutto i polmoni, di minoranze soffocate da antichi divari socio-economici, un uomo è morto perché un altro gli ha impedito di respirare. Dev’essere stata questa, la goccia che ha fatto traboccare il vaso, che ha solleticato, indignato e ripugnato la sensibilità di tante persone in molti luoghi diversi, di molte etnie differenti.

Perché ormai, nel 2020, la lotta al razzismo dovrebbe riguardarci tutti.
E chi sa che, a furia di proteste, da queste parallel pandemics, biologiche e sociali, non si possa trarre anche qualcosa di buono, e cambiare in meglio.

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