Dallo scorso mese di marzo l’Italia ha subito profondi cambiamenti di natura economica, politica e sociale a causa dell’emergenza sanitaria da COVID-19. Una mutazione interna irreversibile. Lo smartworking, la didattica da remoto, il distanziamento sociale. “L’Italia non si ferma” come slogan gridato anche dai balconi per infondere speranza nell’animo di un Paese demoralizzato.
E se la rivoluzione digitale ha fatto da colonna portante in un clima di caos e incertezza, riuscendo a salvare posti di lavoro, le istituzioni che non seguono il progresso e addirittura arretrano sono la scuola e l’Università.
Gli studenti non hanno i computer
Il mondo della scuola è stato il primo ad esser colpito duramente. Le polemiche sulla chiusura, le voci di una riapertura, l’incertezza totale di un sistema poco capace di adattarsi alla “rivoluzione” in corso. L’Italia ha dovuto fare i conti con un modello di scuola 2.0 da un giorno all’altro, e di colpo migliaia di studenti si sono trovati davanti a un computer con una connessione scarsa e dei professori poco inclini all’insegnamento online.
Ma il vero cuore del problema è che gli studenti non hanno i computer. E ad affermarlo è un dossier dell’Istat: “Spazi in casa e disponibilità di computer per bambini e ragazzi” che dichiara che il 33,8 per cento delle famiglie italiane non ha computer o tablet in casa, percentuale che sale al 41,6 per cento nel Mezzogiorno. Inoltre, nel 2019, il 3 per cento dei giovani intervistati nella fascia d’età compresa fra i 14 e i 17 anni ha dimostrato di non avere alcuna competenza digitale, mentre circa i due terzi presentano competenze digitali basse o di base.
Crolla la fiducia da parte dello studente stesso che si sente lasciato a sé stesso, senza alcuna motivazione per continuare a credere nell’insegnamento. Ma soprattutto emergono quei limiti infrastrutturali e divari sociali che da sempre caratterizzano il nostro Paese, su cui non si può chiudere occhio nel 2020.
“Università leggera”
Anche l’Università arranca e fatica a tenere il passo con i tempi. Se è vero che la rivoluzione digitale forzata a causa del COVID-19 ha permesso di poter sostenere esami e di laurearsi, d’altro canto non si può sorvolare sul fatto che una strumentazione elettronica richieda materie prime, energia, trasporto e, dopo pochi anni, smaltimento con impatto ambientale. La demolizione della carta, l’impossibilità di accesso a biblioteche rischiano di rendere l’istruzione effimera. Una visione di “Università leggera” attraverso teleschermi che, a lungo andare, provoca un senso di smarrimento, di perdita d’appartenenza.
In più parlano i dati: il World Economic Forum ha pubblicato il rapporto sulla competitività 2017-2018 di 137 nazioni. L’Italia risulta al quarantatreesimo posto. Ma la situazione peggiora sotto la voce “interesse istituzionale all’uso di prodotti di elevata tecnologia” in cui ci piazziamo novantacinquesimi: quasi totalmente incapaci di sfruttare le innovazioni prodotte.
Eccessiva burocrazia? Poca elasticità? Rimane il fatto che la nostra competitività è minima e colpisce la scuola e l’Università in maniera indelebile. I giovani sono i primi a subire questo clima difficile, surreale e indifferente che non aiuta, anzi appesantisce, il loro futuro.